

Microbiota, a ogni popolo il suo cibo?
Gli studi che cercano di comprendere come i microbi aiutino a forgiare la salute e lo sviluppo umani sono diventati popolari negli ultimi decenni.
Le ultime indagini sembrano provare l’esistenza di un microbiota etnico, diciamo così, legato ai popoli. Il nostro rapporto con i microrganismi risulta così serrato e intimo che alcuni di loro si sarebbero evoluti e differenziati assieme alle nostre cellule, come afferma Science.
I batteri dei giapponesi amano alghe e soia
È vero che il microbiota si differenzia con l’alimentazione, perché i batteri commensali mangiano quel che mangiamo noi, ma è altrettanto vero che ogni individuo ha una parte del microbiota indotta da una predisposizione genetica.
«Si sta tracciando una geografia microbica, che va ad affiancarsi alla babele di religioni, civiltà e lingue», scrive Eliana Liotta nel saggio L’età non è uguale per tutti (La nave di Teseo), in collaborazione con l’ospedale universitario Humanitas. «Si è scoperto che i giapponesi hanno batteri utili a scomporre le alghe, è un’eredità trasmessa geneticamente. Un bell’aiuto nella digestione del sushi. Questo non vuol dire che gli italiani si sentano male dopo un piatto di riso e pesce crudo avvolti nell’alga. È solo che forse ne ricavano meno fattori utili».
Lo stesso vale per la soia. «Sembra che i popoli asiatici siano alleati di alcune varietà di microbi abilissimi nell’estrarne sostanze preziose», scrive Silvio Danese, direttore della divisione di Gastroenterologia all’ospedale San Raffaele di Milano, nel libro La pancia lo sa (Sonzogno). «Questo legume è ricchissimo di isoflavoni, definiti fitoestrogeni per la loro capacità di legarsi ai recettori degli ormoni sessuali, e questa sarebbe una delle spiegazioni per cui in Asia è minore l’incidenza dei tumori dipendenti dagli ormoni, come il cancro del seno, dell’utero e della prostata. Quindi, anche se gli europei mangiassero soia dalla mattina alla sera, non avrebbero gli stessi benefici, perché la loro pancia non saprebbe sfruttarne come si deve alcune sostanze benefiche».
Cibo della tradizione
Insomma, molte ricerche recenti portano a pensare che l’alimentazione da cui si ricavano maggiori vantaggi sia quella degli antenati.
«Ogni popolo potrebbe custodire un lascito genetico specifico, in grado di far proliferare i batteri addetti alla fermentazione dei cibi tipici», scrive Liotta. «Gli italiani sono fortunati: la dieta mediter- ranea degli avi è già una dieta della longevità. Tanti legumi, pesce, frutta e verdura. Ma la nutrizione non è una scienza esatta, non ci sono dosaggi da seguire in maniera pedissequa e ordini cui ubbidire. E poi non avrebbe senso in una società globalizzata chiudersi dentro i propri confini gastronomici. Magari da un piatto indiano si assorbiranno meno nutrienti. Pazienza. Ne gioveranno la cultura e l’umore».
L’importante, come specifica Danese, è andare per gradi quando introduciamo un cibo nuovo nella dieta, e vedere se lo tolleriamo, “specialmente se viene da lontano e la pancia rischia di non sapere come prenderlo. Vale anche per i cibi di casa nostra che consumiamo meno spesso. Pensiamo ai legumi: se li introduciamo di botto nella dieta, oppure se li mangiamo una volta ogni tanto, possono esseri dolori (e rumori). Ma se cominciamo a portarli in tavola un poco per volta e con continuità la pancia imparerà gradualmente come gestirli e potremo beneficiare di tutto il loro nutrimento senza effetti collaterali».

